Procacciatori d'affari e agenti
La Corte di Cassazione, con due sentenze gemelle del 1° e del 2 febbraio 2016 (n° 1.974/2016 e n° 1.856/2016), ribadisce l'illegittimità del comportamento delle imprese preponenti che, per promuovere i propri prodotti, fanno ricorso a rapporti di procacciamento d'affari, anziché a rapporti di agenzia, evidentemente al fine di evadere la contribuzione Enasarco.
Secondo la Cassazione "i caratteri distintivi del contratto di agenzia sono la continuità e la stabilità dell’attività dell'agente di promuovere la conclusione di contratti per conto del preponente nell’ambito di una determinata sfera territoriale ... (omissis)” mentre “il rapporto di procacciatore d'affari si concreta nella più limitata attività di chi, senza vincolo di stabilità ed in via del tutto episodica, raccoglie le ordinazioni dei clienti, trasmettendole all'imprenditore da cui ha ricevuto l'incarico di procurare tali commissioni ... (omissis)”.
Le sentenze ricordano che per distinguere la figura dell’agente da quella del semplice procacciatore è necessario fare riferimento ai "parametri individuati dalla giurisprudenza di legittimità", e cioè al patto di esclusività, alla previsione di accordi provvigionali, all’assegnazione di una zona ed al patto di non concorrenza, nonché “all’occasionalità o meno della collaborazione, quali emergenti dalle fatture e dal prospetto riassuntivo, all’effettività o meno della collaborazione con altre mandanti, alla conduzione diretta o meno delle trattative”.
La Suprema Corte, con la sentenza n° 1.856/2016, ha ritenuto che correttamente la Corte d'appello aveva qualificato il rapporto come di agenzia per effetto della sussistenza del carattere non episodico e non occasionale delle attività promozionali svolte dai lavoratori, elementi che hanno consentito di ritenere la stabilità dell'obbligo promozionale che caratterizza il rapporto di agenzia.